Quattro momenti su tutto il Nulla Carmelo Bene Scritto completo Primo momento: Linguaggio pagina 2-6 Secondo momento: Coscienza e conoscenza pagina 7-10 Terzo momento: Eros pagina11-16 Quarto momento: Arte pagina 17-20 Revisione 15 novembre 2020 ninomartaO@amail.com file archivio http://archive.org/download/QuattroMomentiSuTuttollNulla/QuattroMomentiSuTuttollNu lla.pdf Primo momento Linguaggio Finalmente, una trasmissione impossibile, anacronistica, mi veleggia volteggia, l’essere frequentato dall’errore del vero siccome soffio asincrono della vita impensata. Ecco, non dico niente. Sto precisando in voce che non dico niente. Un non dico niente che, così, risuona. Non dico niente. Soffio di vento, divento soffio. Importa solamente come suono, questo non dico niente. Anche se orale, è niente fuori da timbro e tono. Aria d'ascolto emessa da un pensato, logico senso? No. E perché nulla, nulla m’è consentito dire che non sia equivoca volontà intenzionata di questa mia identità, vanita, lo sono il vortice insensato delle trottola il movimento e la sua negazione, sono Tanti umanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore. Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino. Così come il tutto interdisciplinare mi indisciplina nel degenere estetico, mi sono degradato anche a poeta, ho scritto la voce, troviero d’un poema, ‘il mal de’ fiori’, perché leggere é scrivere il soltanto lettore é un fuori tema, é un parvenu di fronte a un foglio sempre più sbiancato. Ho discritto la voce con quella nostalgia che riserviamo alle cose che non sono mai state, da per sempre mancate. Le cose, queste, sole, indimenticabili nello sconcerto degli spettacoli oltre il senso: teatro senza spettacolo del senso, ricerca impossibile, come rigorosa impossibilità del trovare negli eventi di scena laddove si consuma il rifiuto dell’arte inteso come rifiuto delTumano; soprattutto il rifiuto dell’umano linguaggio nella sua eterna fucina delle forme. Ebbene, negli spettacoli sconcerti ho discritto la voce dell’inorganico, delTinanimato, delTamorfo, del non risuscitato alla smorfia dell’arte lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone, sì come dato in quasi tutta l’espressiva cartolina del ‘900 poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso. Nessun problema finalmente, un incipit é di per sé la fine, la favoletta biblica relativa alla dannazione caotico-linguistica inflitta alla gentaglia tracotante rea di quelTaver tirato su la torre di Babele, oltre che falsa e stolida non ha un bel niente di eccezionale, babelica davvero é ogni nostrana erranza linguacciuta nella variazione perpetua di qualsiasi mancato presente in divenire. Siamo quel che ci manca, da per sempre. Lo so, mi sa, che il nostro delirare in voce é un differire la morte, ché noi si muore appena abbiamo smesso di parlare, appena abbiamo smesso l’illusione d’essere nel discorso, consultare Saussure eccetera. È strarisaputo che il discorso non appartiene all’essere parlante. Lo so, mi sa. Tessere é il nulla, dunque noi non ci apparteniamo, quando crediamo d’esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione é irrimediabilmente frustrata e dal momento che non siamo noi i dicenti ad argomentare in voce, ciò che ci frulla in mente, così come non sei, puoi dire, nulla. Questa mia voce é me attraverso un medium equivoco di un discorso altro dal presupposto, virgolettato, mio discorso. Il dire é la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato, voce che perciò dice nulla, vedi Carlo Signa a proposito della voce e il fenomeno in Derrida. Si può solo dire nulla, destinazione e destino d’ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio quel che si dice: la verità del discorso intesa 3 come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che in tutto abbandono lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione. - Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo - è Nietzsche mutuato in un distico da Montale. Che miseria, n’evvero, che miseria, l’ostentazione risibile del così detto opinionismo nella straripante società dello spettacolo, delle zuffe tv, nelle tribune politiche elettorali nei convegni accademici, e nei sempre audiovisivi intrattimentacci dove ciascuno è straconvinto di dire proprio la sua, peggio ancora se si illude di mentire, di fingere siccome avviene per gli interpreti a teatro, ce n’è fosse uno. Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte, che il termine attore ha il suo etimo nell’agere retorico, e nemmeno per sogno nel verbo agire. E nonostante la solarità della mia lezione questi frenetici spezzini del proscenio seguitano a naufragare, dove? Nell’identità, scoreggiona del teatrino occidentale, patronale, del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante servilissima venerazione dei ruoli, all’insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa stucchevole frenesia del moto al luogo, alla rappresentazione insomma dei codici di stato, come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court. Non c’è soluzione, perché non basta soltanto non essere ignorantissimi, perché è non esserci che è indispensabile. Ma ciò è impossibile se prima non vi siete chiodati qui, nella svuota crapa, che l’i-i 000, r i i 0 l’io dell’uomo ha creato dio e non viceversa, che insomma il vostro signore inquilino del superattico tra le nuvole non ha giammai risposto del proverbiale talentacelo del chi s’è fatto da sé, e per di più dal nulla. Il catechismo dogmatico devozionale, non è teologia. Don Occam il dottore addusse a prova dell’Iddio esistenza che noi si può pensare anche le cose che non esistono. Complimentacci Monsignore, acci. Già. Fatuo, fatuo fatuo é quanto risibile qualunque esercizio teatrico di rappresentazione impregnato dell'essere dell'essere! Tesserci inteso qui come infortuito indifferente nome accettato appunto casualmente nel pathos delTeterno ritorno nietzschiano e non mai frainteso nella sua stolida proprietà ontologica basta basta che m’ha parlato, niente, dice basta prima del cominciare come del non mai stato basta col riferire il già pensato tutto il quanto è attuale é dependante Tatto non è Tagire, questo cos’é mai questo? [alza un dito] è un gesto è un gesto un gesto senza simboli un gesto che mi amputa la mano, questa, estraneo al braccio un gesto cestina-to che nella crapa qui bello è scoppiato è il che fu la memoria il virtuale il ricordar passato ora quanto dovrei scavare nel riandando a esumare mettiamo un momentino dell'infanzia trascorsa da innestare insensato a questo adesso perché si dia un presente ma tanto è distante quella nostra infanzia che certamente non sattaglia più mi fastidia Tesser troppo cresciuto manco una scheggia scheggia virtuale del riesumato corpicino di all’ora s’attanaglia a nessuna figura del presente impossibile in-indossabile da nessun animato manichino adesso. 4 Seguito a suonar vento affabulando ma questo della voce che mi dice insiste a strimpellarmi ancora e sempre fuor d’un discorso logico che elementare non appartiene all'essere fortuito del dicente, dice, note ad uno spartito che stregato mi fa soggetto musico suonato soggetto assoggettato appunto chi ha scritto paroliere la canzone chi, non è dato, ecco sì sì sì sì sì mi vedo visto nello specchio del monitor sotto camera ridicolo due volte virtuale idiota, mediazione mediata e rimediata questa vedete immagine impossibile ed un suo proprio presente visivo possibile e il domani che così differito non esiste sarà presente solo nella sua veste di-scorsa trapassata come le cose tutte di un passato che altrove fu presente e in quanto tale mai fu, siccome questo adesso che è mai stato ed è, si dice è, tra passato e futuro, il tempo aion [aicó] impossibile appunto, e illusione di un punto inesistente siccome noi lo siamo se disindividuato e agli occhi chiusi, questi [chiude gli occhi] così. Parlami ancora è un suono questa voce che modula un bel niente amplificata soffia dentro un micro microfono così come t’avviene di canticchiare un tema ignorando del tutto le parole fuori dell'essere fiato dell’esser vento la musica si infischia del suo testo. Dunque pure il passato non fu mai, mai un è, mai fu vissuto le sue rovine nient'altro sono che, resti, di che mai fu presente, solo se la memoria sedicente si fa oblio l'artificio si annienta nella felice attualità dell'atto ogni ricordato pensiero evapora neH'immediato vanire del soggetto si innesta qui la mai abbastanza intesa lettura come non ricordo nello scheletro suonato d'ogni testo, in questa memoria di lettura, e qui è perfetto Maurizio Grande, il ricordo viene esonerato dal dover essere della prestazione rappresentativa e simulativa, leggere una partitura di scena e operare per una dimensione in- temporale della memoria che elimina qualsiasi compromesso con l'apparato del ricordo, leggere e dimenticare la scena abbandonarsi a un passato che non torna che torna presente proprio perché non memorizzato ma rimemorato nel non ricordo, leggere è ripartire dal grado zero del rimemorare riandare a quel passato del presente che è la memoria arcaica di un dire senza volontà dove ogni contrazione muscolare ogni spasimo del ricordo personale ogni parvenza orale, è abbandono al sonnambulismo della macchina attoriale. A che nessuno mi intenda, logicamente intenda, non occorre bla-blaterare in turco questo consimile concettazzo se v’è dato riuscire persuasivo attendibile suadente musicalmente veritiero, è in Aristotile, ebbene ciò non dipenderà mai dalla entità qualità propria del fatto in sé che si narra, ma unicamente dal pathos della voce che l’inventa é mai davvero, mai riferisce il fatto e l'armonia sonora ciò che conta é non mai il contenuto del racconto, il racconto d’un fatto che non é mai accaduto fuori dal soffio orale. Leopardi, e Nietzsche insistono fino alla nausea sull'intimo segreto d’una strofa e d’un verso, mai curarsi del senso testuale ma concentrare l'orecchio della mente solo sull'ossatura timbrica dell'interno musicale di che la strofa e il verso si compone e la sonorità de-pensata che il poeta persegue le sillabe parole seguiranno, un compositore rispettabile é solo intento ai suoni. Verdi al suo librettista, spediscimi ti prego il primo atto io da un bel pezzo ho terminato il quarto, oppure rescrivimi e fa presto questi versi che così come sono con questo accento sulla terza sillaba frastornano la frase musicale eccetera eccetera eccetera, e Vincenzo Bellini a Carlo Popoli librettista dei suoi “puritani”, ricordati che la gente a teatro vuole piangere piangere e non comprendere storielle libretti etiche contorte o no che siano, nonostante ti guardi e disapprovi sono costretto a inchinarmi al tuo cospetto ne dicano 5 che vogliono i terrestri tu divino non più tu hai superato te stesso, gli dei, è plurale il termine divino, t’hanno prescelto gli dei t’hanno suonato in doppio senso, bastonato il tuo corpo e fatto musica, t’hanno sottratto agli infiniti ruoli del quotidiano identico dentro e fuori di scena t’hanno restituito sì sì sì gli dèi alla favola al mito che era tuo nella notte dei tempi t’hanno scuoiato d’ogni simulazione d'accatto d'ogni finzione, sì questa orrifica lebbra che spietata globale è in festa, le purulente croste museali e la flatulenza dialettica dei guitti replicanti condannati alla stima dei successi sui patiboli palchi destinati dai codici di stato alla massa tetra teatrificata della balbuzie sedicente prosa. Se il divino si mostra è venerato dalle mantiche folle dei suoi martiri nell’etimo testimoni pigiati dentro dal rosso sangue delle platee in velluto dentro dei palchi loculi e fin lassù nell’altissimo dipinto azzurro delle piccionaie piangono queste folle son felici si direbbe che vogliano morire acclamano tanto a lungo perché duri, sì, duri a loro in petto, che cosa?, ma questa dolorosa e quanto cui sono pervenute sì questa dell'esistenza senza scopo vuota e poi pazienza poi di nuovo a casa se t’attraverso loro rivelato una “ahi” che prima dell’eseguire il tuo sconcerto pareva non sentissero che noi non siamo altro che fuochi fatui rappresentanza e rappresentazione, ci si dà del tu nell'illusione ad esserci tu ed io, d-io d-io, così per sopravviverci mentendo eccome caro il mio ragioniere il mio dottore ispettore o notare professore quest’io quest’io che no ma cara cara la mia brava donna. Siamo quel che non siamo nel quaggiù del fortuito quotidiano vitale perché mai dunque perché a questo primo millantato credito dell’identità spudorata in maschera perché aggiungere ancora una seconda contraffazione un'altra, parodia del doppio imbecille ma se siamo soggetti a milioni di doppi, quando la tua saccenteria arrogante, fortuna che ci sto io che ti trascuro, sia l'abbandono nel non luogo il buio, il luogo del poetico dell'artistico artefatto e soprattutto lasciami dormire, millantatori del vitalismo scenico mentecatte bestiacce attricette di carne concertina chissà se apprenderete un giorno o l'altro a dimettervi sperando di svanire altro che simulare a noi tutti conviene conviene addirittura esser sinceri, rischia un bel nulla chi non si appartiene sinceri nel mentire, è così nella ranza veritieri la verità non esiste non esiste per il semplice fatto che c'è data soltanto nel delirio del linguaggio nominare le cose e non conoscerle 6 Secondo momento: Coscienza e Conoscenza Che dire? Niente. Sogno d’essere un tale che intestardito d’esserci, ci pensa. Lasciamolo pensare. Nulla esiste, e ammettendo che esista, non potremmo conoscerlo, e se ci fosse possibile conoscerlo, non avremmo alcun modo di comunicarlo. Suona così nei secoli dei secoli il ceffone di Gorgia a quel Parmenide che ha inventato l'essere, identificato con il pensiero. Basta! Sgombriamo il campo recinto dallo specifico impensierato, le sabbie mobili di ogni filosofia linguistica, sgombriamo il campo da qualsivoglia impossibile comunicativa destinazione, abortita ogni smania e insulsa del proferire ad essere compreso. Tutto che mi s’appreso nei mill’anni, che mi s’appreso siccome appiccicato addosso, m’ha disappreso. Ho in orrore parola e pensiero, e non soltanto perché mascherato sotto gli sghignazzi, smorfiato l'autoinganno, l'errore, ma parola e pensiero intesi proprio in quanto illustrazioni-immagini, colorati segni di che si veste ogni speculazione linguistica. È un’onta questa un’onta ottica, più che ontica. A fastidiarmi e come stracolorata figura è ogni scrittura, cartacea o detta. Saussure chiama immagine acustica il significante, la voce è stradipinta, volgarità espressiva imputtanata dell’orale intenzionato, che è rosso fin nelle più bambine articolate sillabe. Vento al vento, soffiate. Questa voce, questa mia voce che qui ora mi ciabatta, distorta nella erranza del discorso, nello sconcerto evento dei miei spettacoli oltre il senso, teatro senza spettacolo del senso, e ricerca impossibile come rigorosa impossibilità del trovare. Questa voce si fa cesura tra parola e cosa, tra linea e forma, tra voce e logos, tra detto e dire, tra attore, e ruolo, nella rappresentazione disattesa, mancata. Questa voce è quanto si sottrae al linguaggio, ne spettina ingarbuglia la comprensione intollerabile, come un timbro prodotto dalla simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente. Il lavorio della cavità orale, provoca la spaccatura attore ruolo, ma anche al suo stesso interno, questa voce vomita sulla scena l’abbiezione del senso e del soggetto, in una plurivocalità del dire, che consente di sentire il molteplice all’interno della parola. È come ha detto in merito Camille Jullian, è introdurre sulla scena colui il cui nome è legione, il diabolico contro il simbolico. Einstein considera la conoscenza come la cosa più incomprensibile dell’universo, ogni larvata forma di conoscenza è indissolubilmente ancorata alla mediazione linguistica, che ci condanna alla perversione del significato, ad una presunta oggettità altra rispetto al sedicente soggetto che la designa. L’umanità parlante a da rassegnarsi alla necessità gratuita della mera nominazione, orfana del soggetto e dell’oggetto. Se cerchiamo di considerare lo specchio in se, finiremo per scoprire su di esso nient’altro che le cose, se vogliamo cogliere le cose ritorniamo in definitiva nient’altro che lo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza, chiosa di un genio. Contraffazione ottica, appunto, da cui il famigerato, guardarsi dentro, autentico strabismo che, nell’equivoco di una risibile sfera interiore, tanta insania ha definito coscienza. L’Amleto che se ne scopre privo si proclama, in malafede, vigliacco. Quanto ai rimorsi di coscienza, Villiers de L’isle-Adam in uno dei suoi splendidi e feroci racconti crudeli, narra di un vecchio attore sopravvissuto alla sua lunga carriera sprecata nella rappresentazione simulata dell’altrui vissuto. 8 frequentato soltanto come lettera vuota, riferita dalla cadaverina dei defunti testi. Vecchio attore che finalmente preso dalla curiosità di sinceramente sperimentare un tantino di umano in vita autentica, si dispone a concedersi una vera passione, e tra le tante decide, per il rimorso. Incendia tutto un quartiere parigino e spettatore tra la folla esterrefatta, compiaciutissimo, ne contempla l’orrifico esecrabile disastro. Si apparta quindi in un vecchio faro costiero, un habitat di cui ha già provveduto a farsi eleggere guardiano, e qui si infervora a sfogliare la tantissima cronaca nera del suo misfatto, evidenziato dunque a tutta pagina dall’indignata stampa nazionale, aspettando fiducioso l’insorgere sacrosanto dei rimorsi, che tuttavia tardano a manifestarsi. I rimorsi da lui devotamente sollecitati, incrementando l’entità del proprio crimine con il provocare catastrofi marine, omettendo o alterando i segnali opportuni. Scorrono giorni e notti invano. Niente. Nessun rimorso. Nessuno rimorso inquieta la sua coscienza. L’etica non ha senso di colpa, ne rimorsi. [Amleto], musicalissima incoscienza. E qui si che l’etica fa scempio della morale, paternità e fraternità oltraggiata, irresponsabilità d’amor filiale, maternità ingombrante prostituita, contenuti e valori storici svuotati dalla pura beltà dell’argomento. Onorabilità dimissionaria, social civile dovere pubblico obliterato, mutuo soccorso e concetto di prossimo dissolti, popolo e patria esplosi, umanità e umanistica cultura vilipese, siccome solo in sogno te dato di sognare, cultualità e lavoro salariato riconsegnati è l’ora al disonore, condominio, famiglia in pattumiera, gioventù impensierata agli arresti, ma subito agli arresti. Con Sade e Masoch, l’infortunio dell’etica coniugata alla morale, la morale della legge, del bene delle volontà del giusto, ha conosciuto le sue vertigini. L’infortunio accecato travolto dall’irruzione del comico nel pensiero, nella scrittura extra-linguistico-letteraria. Così più 0 meno Deleuze, - vi è sempre stato un solo modo di pensare la legge, una comicità del pensiero fatta di ironia e umorismo -. Più di qualcuno ha riconosciuto in Sade la più alta e significativa persona etica dell’umana storiella, non v’è niente di erotico in Sade, v’è tutt’altro nella ripetizione orgiastica de-ri-sessualizzata all’infinito dall’apatia del fantasma sadiano, fino alla prostituzione universale oralmente invocata da Sade, nella filosofia nel boudoir, dalla calunnia al furto, all’incesto, allo stupro, alla sodomia, al delitto ecc. Prerogative queste elette a istituzioni fondamentali di ogni rigorosa repubblica. L’umorismo erotico pervade tutta l’opera di Masoch, comico e porno vanno invece a braccetto in Franz Kafka. L’edificio sadiano è strutturato a scatole cinesi, nella più grande c’è la più piccola, nella più piccola, l’impossibile. La spropositata emissione di sperma, equivale alla quantità di salivazione retorica, stupro o sodomia del linguaggio nella criminalità della scrittura. La trasgressione del linguaggio è la trasgressione morale. E di fatto la poesia, non il poetico dell’anima bella, per dirla con Roland Barthes, la poesia che è il linguaggio stesso delle trasgressioni del linguaggio, la poesia è sempre contestatrice. Come Rimbaud ha sculacciato la bellezza, Sade ha ecceduto il linguaggio, nella criminalità della scrittura, vanificandone un’impossibile 9 lettura a livello di rappresentazione letteraria del reale, ridicolizzando ogni interdizione interventistica della legge, nel suo e nel nostro tempo. Della legge che insiste ancora nell’interdire la diffusione delle sue opere, la cui mostruosità consiste essenzialmente nel cortocircuito frastico del discorso, nell’ironia esasperata dalla reiterazione orgiastica, dove il fatto coincide col tutto è detto, il tout est dit, già raccontato ai protagonisti libertini, dalla perversione, puntualmente serale delle narratrici. L’oltraggio irrappresentabile come attentato sadiano alla moralità della scrittura, nel corpo di un suo libro una pagina quasi una velina, sembra sovrapporsi a un'altra, e quest’altra ad un'altra ancora, nello stesso tempo moltiplicando lo strabismo del lettore. Questo oltraggio non costituisce una lettura degenere, ma è decisamente fuori da ogni ordine letterario. Mai come in questo nostro tempo tra i più sanguinari e insignificanti, mai, s’è tanto abusato di parole quali fratellanza, governo solidarietà tolleranza pacifismo eccetera, mai nessun altro tempo fu come questo cosi parodisticamente etico e perciò risibilmente amorale. Mai nei suoi singoli, così infettato da plusvalore di moralità, tanto che si è costretti a sconfinare nella cronaca nera per reperirvi una qualche figuraccia patologicamente etica. Siamo asfissianti da una massa così sciatta, amorfa, e paradossalmente intraprendente, che non ci sentiamo in compenso oppressi finalmente da nessun equivoco moralistico, e non è poco nell’insignificanza della tirannia delle plebi. Il vilipendio banale della pornografia contemporanea, nella idolatria insensata della società delle immagini, travolta dalla sua propria volgare insulsaggine caleidoscopica, nelle edicole e nei ritrovi a luci “rosse”, è il motore della parola, nella clonazione mediatica di massa, irrimediabilmente assordata dal mercatino delle visioni, nel cimitero planetario della vocalità tumulata. Una massa accecata e perciò inetta ai davvero trasgressivi e invisibili piaceri d’ogni lettura scritta. In balia dei valori moralistici d’accatto, incapace di ridere delle nomenclature, la legge e il desiderio represso eccetera eccetera. Una massa ignobile al punto da stupire della frequenza del crimine consumato in seno alla sua stessa famiglia, perché non riesce a considerare la famiglia come crimine. Quanto ai comportamenti del femminile odierno, pur d’adeguarsi alla volgarità politica del mercato, la donna si traveste di tutt’altro, degenerando in hibrido, fino alla più funesta conseguenza, abdicare alla propria congenita stupidità, invidiabile alla spensieratezza, in cambio della sciagurata omologazione sociale, nella sua pensierosa mascolinità impotente. E dire che per non so quante vite consacrate all’esercizio scenico del depensamento, flettendo fino al ridicolo l’algido irrompere del comico neH’immediata sospensione del tragico, smemorato mentecatto immemore nell’abbandono il più dis-voluto, proprio spiando l’idiozia dell’arte, ho perseguito, e quanto devotamente, la beatissima grazia della stupidità. 10 Terzo momento: Eros 11 Tristo, tristo nevvero codesto mitologico dettato sulla misera della scontenta irrequietudine dell’amore. Groddek precisa essere la copula, un surrogato della masturbazione, e non viceversa, e altrove, cito come a memoria, che cos'è un piacere se non un eccitamento del senso di potenza attraverso un ostacolo che in tal modo lo fa gonfiare, dunque ogni piacere contiene anche dolore. Schopenhauer è solare quando afferma che il sospirare degli innamorati altro non è che il sospiro della specie. Il vagito della specie. Gli amanti giovanissimi e decrepiti inghirlandano le mani intrecciate stupidissimamente fissandosi nelle finestrelle chiuse degli occhi, e sofferenti smaniosi, paiono lamentarsi d’esser loro quei due nel chissà dove, ed emettono suoni che se fossero in sé non ascriverebbero senz’altro alla propria fonatoria emissione. Macché, posseduti e stregati da una sorta di arrogante dualità irresponsabile, non indagano a fondo sulla qualità timbrica e tanto meno sulla estraneità di quelle voci, di fuori appunto, che certamente non possono davvero appartenere al nulla in fregola che reclama, é assurdo, la sua urgenza di essere messo al mondo. Questi vagiti, suoni, sono del via col vento e basta, di quei due che già in anticipo soffrono il marcio della procreazione, cui sono condannati, doglie del parto, e stolide strazianti astanterie paterne nelle cliniche. Gaude il terzio, che no. E non é davvero il buon dio che certamente non se la sente d’esistere apposta per questo, per combinare scappatelle abortite, indaffarato semmai a rigenerare se stesso da se stesso, in quella sua eternità del fuori tema. Poveri poveri, poveri innamorati, subiscono la sorte dei due termini nella proposizione grammaticale, congiunti da una copula, rovesciando questa proposizione nella vita vissuta. Ogni maschio in amore a ben pensarci meriterebbe la castrazione inflitta ad Aberardo, ridimensionato dal suo furore linguistico a canzonettista erotico, da medioeval modista a Farinelli. Leggiamo un breve passo del mal dei fiori il poema che mi ha scritto l’altr’anno, una pagina in quel corpo affaticato dalla copula, se ne lamenta - anzi ch’é fotta ‘I cordelcorp me ‘I dice ahi! me fa mal al mal st’eriticazzamor ch’heros vu’ dite de ‘mmassar a che prò s’istessi semper vo’ du ‘sassin de novo ve ristate spectaculo deforme accominciar l’etern tristo ‘rotico che m’envolve stracc fa me viver sta mor Il cor m ‘I dise ‘nzogno der tremoto che me scerpa tra un momentin o do la serà strizza stacarndeporc sudada ‘n la stasir Ahi ahi ve ‘nploro dice ‘I cor me ‘scoltate El paradiso é star comme se fusse no - Nella frenesia dell’amplesso sciagurato, è il corpo, e solo il corpo, ad accusare lo stress di ogni frequentazione amorosa. Ahi l’amore, l’amore 12 facchino, è costante refrain nei mai dei fiori. È ii corpo che potendo chiederebbe soitanto di essere dis-individuato, invocherebbe una tregua aiia erotomane frequentazione ignara, dai momento, Deieuze, che noi, siamo, e non, abbiamo, un corpo, anche esso vittima dei iinguaggio, questo corpo, non è strumento neutro. È un oggetto baiocco dei pensiero, è un insaccato di nervi ed ossa, di muscoii e di carne, carne senza concetto, appunto, privo di voiontà come di vogiie, sensazioni gusto visione udito oifatto, e in baiia dei nevrasse che io asserve, animandoio a proprio taientaccio e dispiacere. Tristi prerogative deiie mente, che guarda caso nei suo inconscio, ad aitro non ambisce che a smentirsi, farsi corpo cadavere, regredire aii’inorganico, a una pietra, a quei non essere mai stata. Nostaigia deiie cose che non sono. E l’abbraccio, l’abbraccio degli amanti, non evidenzia forse il modo e il mezzo di evitare un viso a viso intollerabile? - Bracciaperte ‘n la croce addùa innervata in coesa ruina eros vinghia inimica carne ‘n la febbre issi ma L’abbraccio indù ‘n che tremulo bronzo è fuso siccome ‘n cera molle di sagoma ch’è una Visavviso solo inviso è l’amor d’amor irriso in franto specchio ‘stretto a no vedersi got ‘ a ganascia stagna ch’è reclina ‘stringe amor a evitarsi ‘n visavviso che non più mai si sdua ‘Stringe a nientar i ‘nnamorati vólti vólti a si star sconoscersi scordar che s’era imprima ne la distanza breve di due passi É ‘I sogno che vanisce negli amanti da gli amici acclamati ne’ convegni d’amor che fai stasera? - Niente ti chiamo ci vediamo troppo se di lontano certo dove vuoi gli occhi chiusi ci vediamo a più non esserci com’era prima quando noi non s’era - Nell’equivoco erotico, siccome nel delitto il più perfetto, si copula e si uccide soprattutto perché si sappia, se no equivarrebbe alla recita di due attori senza pubblico. - Ruotano inverse stupide su ‘I ghiaccio ai bordi de’ morosi le figure d’erosfoia ‘mbestiate a pena schiuse se pur ansanti ‘nfuriano a sfogliarsi de l’incomode ‘n bello vest ‘ n ferro Dorsaddorso violetti ‘n po s’ingrugnano in tra se de ‘I peccato questo ‘I solo non esservi presente un qualche amico fido a testimoniar di loro gesta chè l’ammore è traruto Ddoie se vonno bene 13 e nisciuno c’ ‘o dice a nisciuno Nun è cosa Cuntento nun si’ - Il reo non s’appaga d’aver commesso il fattaccio, ma arrogatasi la pretesa paternità della colpa, reclama il proprio nome in locandina, è sempre confesso. In un delizioso raccontino di Edgard Allan Poe, il genio della perversità, un impeccabile austero docente di frenologia, coincide coll’assassino, autore di un delitto perfetto, meditato per settimane e mesi, sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro, si ripete, questa tanto piacevole sensazione si converte via via in una giaculatoria da incubo, sono al sicuro, sono al sicuro, sono al sicuro, si, a meno che, a meno che, non sia così cretino da farne io stesso completa confessione. E difatti lo grida ai quattro venti. Se non esisti sei autore responsabile di un bel niente, e tuttavia sei condannato a dirlo, questo niente. È così che attorno a un crimine si apre sempre un’affollatissima asta di candidature estranee al fatto, di gente già pentita di non averlo commesso. Si uccide appunto per poterlo raccontare. Al di là di ogni principio di piacere, l’assassino cede comunque alla tentazione dell’asino, recitare da asino, per essere attendibile come assassino. Un delitto inconfessato è un delitto mai accaduto. Il geniale cretino perverso, fa di tutto perché lo si sospetti, la sua vanità a requia solo se una volta per tutte se riconosciuto, a costo della galera e del patibolo. “Ah, non volerti misera, non deve specchiarsi in te la povertà dell'amore” Friedrich Holderlin. Se amore nel suo scontro ireciproco, cioè la copula, squassa, delude, annienta, i corpi stracci dei due vanamanti, si mostra ancora più spietato nell’esercizio della finamor, quest’eufemismo scellerato, se nella filologia romanza trovadorica, e tanto peggio detto appunto, amor cortese. Dove la sospensione categorica dell’erotismo fisico, è prescritta in ogni sua declinazione, ritualmente soppiantata dall’insistito unilaterale corteggiamento in voce, privilegio patronale esclusivo del cavaliere amante. Bell’espediente questo che risparmiava al maschio le fatiche del coito trasudato, fastidiando, e non poco, la dama tramutata in mero ascolto, letteralmente trascurata nelle sue più naturali esigenze fisiologiche, così ferocemente frastornata dalla tetragona devozione lirica tributatale. E non finisce qui, che se la malcapitata castellana si sottraeva a tanta s-cortesia innamorata, ecco che il suo signore trasumanava in madonna, quel suo fin lì profano oggetto erotico. Ormai così incolmabile la distanza, campato il tutto in aria, come tra cielo e terra, questi signori dell’amor parlato, inalberati a cavallo con tra le mani tanto di specchio, preferivano farsi crociati, piuttosto che restar lì a starsene zitti. Meglio votati ai rischi del divino amore, che rifiutati servi dell’amor parlato. E nella grande mistica, l’amore per il prossimo è comunque associato a una forma di irrequietudine peccaminosa. L’amor sospetto in Angela da Foligno è in Maddalena dei Pazzi elevato all’amor morto, e per di più riferito a dio. - L’ultimo amore è l’amore morto, il quale non desidera non vuole, non brama, e non cerca cosa nessuna, perocché l’anima che possiede questo amore, per la morta relassazione che ha fatta di se in dio, non desidera conoscerlo intenderlo ne gustarlo, nulla vuole, nulla sa, e nulla vuole potere vivendo al tutto siccome morta. - L’eros facchino ha tregua nel suo rovescio, costituito dal porno, che per 14 sgomberare il campo dagli equivoci sarà preferibile definire o-sceno, dall’etimo fuori-scena. L’osceno è per definizione, l’eccesso del desiderio, una volta si intende sacrificato, svilito, immolato. Eros. - siccome e’ gira gira ferma qui a noi d’accanto su ‘I perno ‘I suo ‘na giostra di ciuchi ‘n cartapesta che si dondolano immoti e vanno vanno ‘n chissadove infanzia lontanata del vano suo non più che fu mai ‘me stanno stanno e vanno rnai dipartiti ‘n non tornar mai più - È quando pur muovendosi si sta, annichilito come l’amore morto, il tra virgolette, rapporto osceno, è la relazione mancata tra soggetto e oggetto, è l’orgasmo non sollecitato da nessun desiderio, da nessun vitalismo, voglia. Prerogative dell’ansia erotica queste, nella ireciproca situazione oscena, i corpi se ne stanno come cose, oggettità pietrificata, ma presente alla mente come un altrove, una irriflessa sovra coscienza incantata, le posture, i gesti somigliano, le smorfie involontarie, come evocate da una meccanica automatica, come se qualsivoglia occasione porno fosse spiata da un occhio estraneo, intestimoniabile, assolutamente altro, dall’orgasmo proprio delle estasi mistiche, di cui il soggetto oggetto sa un bel niente, mai presente a se stesso nel suo oblio. Il non amore osceno somiglia il ricordare le cose che non sono, le cose sole, queste, indimenticabili. - Siamo fuor del marcire dentro un sacco morente assenza Resti di che mai fu In provincia la stessa che ritorna tourne à naitre in tour-nèes poveri guitti babalbutiti ‘n vota scena da nostradonnamaria insignificanza indove ce ne no stiamo più non stiamo e t’amo ‘n letto ‘me se d’altrui cadaveri ‘nventato L’hanno portato via l’hanno portato chi l’aveva una volta mai l’amata se non a mo’ di tazza sul comò tepida oscena dura a mo’ di smalto busto tronco sensuato ‘me di bambola educato ‘n androide sì così si sta in così ecce femina ch’è no Distaccata me pronta lontanata chissà per s’avvicina l’altra mano toccami qui dove più non duole il no del corpo star in fare il morto Che ragazza e ragazza! È cosa spoglia nella sera dall’ombra carezzata ne la carezza ombrata da la notte in dell’incanto sole del meriggio domestico claustrato d’arabeschi 15 divini evanescenti alle marine pareti della stanza ‘n divenir Che ragazza e ragazza! sperso arredo ‘n dettagli in apparir disparso dentro vano che d’intimo discreto in m’hai scordata L’hanno portata via l’hanno portata ‘me il tutto ch’è mai stato e poi finì - 16 Quarto momento; Arte 17 Accidenti ai quattrini, accidenti alla cartaccia moneta, questa orrenda matrigna dell’arte, di tutte le arti. Mestiere infame, questo dell’artista, da sempre, neH’eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo borghese fatalità del miserabile. Coniugato a tal punto che quest’ultimo, poveraccio spregevole termine, potrebbe benissimo sostituire l’altro, cioè quello dell’artista, in un più intransigente rigoroso dizionario. A un individuo abbiente e rispettabile, non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto arte. Arte, il più astruso e stupido tra gli espedienti. Non venitemi per carità a dire che si frequenti un’arte proprio perché stregati dalla implicita stupidità, no, non è così, chiunque è in grado d’essere un idiota, restandosene quieto e scioperato. Che mai patologia perversa costringe il miserabile a consegnarsi ai voti claustrali delle muse, a chiodarsi all’infamia della crocetta estetica, son tante, troppe le motivazioni, e tutte mica tanto decorose, a cominciare dalla vanità esecrabile dello stimolo creativo, maternale insensato dis-umano, al famigerato ruotare attorno al solito perno dell’esser padre delle proprie opere, farina del suo sacco, parto di sua esclusiva fantasia, intellettiva maternità virile, eccetera eccetera eccetera. Come fosse possibile, scontato, l’essere autori d’un qualche cosa. L’autorialità è un doppio falso, nell’idea che la origina, e nell’artificio che quell’idea stravolge realizzandola. Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall’ansia individuale d’esprimersi, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati, quanto si crede basti, a suscitare l’emozione spettatoriale, simultanea al configurarsi dell’oggetto bello, e all’attenzione della stima critica, ma se codesto, chiamiamolo, risultato artistico è così vilmente subordinato al successo decretato dalla visione altrui e all’apprezzamento critico, la fantomatica aristocrazia del simbolico lavoro è degradata a vilissimo posto di lavoro, se non addirittura svergognata a dopo lavoristico galeotto sollazzo. Senza, per giunta, trascurare il fatto che, sulla scorta insana di eccezionali precedenti illustri, la massa degli addetti all’artificio è spesso incauta vittima di alterazione psichica, stordimento alcolico narcotico, fino alla più gratuita autodistruzione. Quando alla dissennata volontà d’esprimersi si coniuga il tarlo ambizioso della comunicazione, ecco instaurato il circolo vizioso dell’estetica contemporanea, estenuante ricerca di un uditorio convocato a subire tanto insistente esibizionismo. La storia dell’arte, salvo rarissime eccezioni che la eccedono, appunto, è una routine consolatoria e decorativa e qui nessuno ha voglia d’essere consolato, anzi, intende restare inconsolabile decoro e non decor. Non è qui il caso di commiserare ancora la malafede dell’usurata vocazione al bello, 0 al bello brutto che sia, perché qualsiasi scappatella estetica, qualunque impresa artistoide è già ideologicamente condizionata dal preconcetto del bello in sé, altro che scelta e libertà espressiva. L’intento è già esitato. L’arte come servizio sociale? Ma è un servirsi degli altri! Al solo scopo d’uno sfrontato personalissimo tornaconto nel riconoscimento pubblico, già, il riconoscimento pubblico artisti, miserabili, e relativi, miserabili, fruitori. Lo schizzinoso, platonico distinguo 18 tra originali, simulacri e copie, riflesso innumere di replicanti, genia clonata. Ehh l’arte, rompicapo demenziale nel de-cretino favoreggiamento d’ogni ministero dei beni culturali, istituito a vezzeggiare le morte croste d’autore, al solo scopo di scongiurare la vertigine del presente impensato della vita, ad arrangiare lager museali per turisti che abusano del proprio tempo incomprensibilmente libero! Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai. Tutto il falso problema della produzione artistica è sempre questo pervenire a questa o quella forma, e comunque, solamente a una forma, identificata al suo contenuto, ma questa forma è nient’altro che una traccia residuale di un chissà che altrove, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista. Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo, bisogna eccedere le forme. Una sottrazione questa, che si può ottenere anche tramite un sistema additivo evitando insulsaggini come, il quadro bianco, il teatro nel teatro, la musica fortuita, eccetera eccetera eccetera. Una sensazione, non è forse questo l’unico auspicabile riconoscimento d’ogni prodotto estetico, una sensazione incorpora tutti i nostri sensi, e ciò mi suggerisce la figura d’un artefice che attendendo a un’opera, vi proceda con il concorso d’ogni artificio disciplinare, rifiutando qualsivoglia specifico d’arte. Così operando, nel senso, appunto, chirurgico d’un coroner, evita di scempiare il suo oggetto cadavere amputandolo di questo o di quell’organo, e proprio in questa apprensione quasi tensione interdisciplinare, merita a questo artefice la sacrosanta indisciplina, rigorosissima indisciplina, la grazia, insomma, che sola, ultra cosciente necessità, lo affranca dalla penosa individuabilità che contrassegna il genere specifico dell’artista. Quando ci si dice, io non sono pittore, è allora che bisogna dipingere, Van Gogh. Né pittore, né musico, né letterato, attore e at cetera. É questa estrema, totalizzante, globalità d’artefice a spacciare qualunque relatività d’artista, decretando anche il tramonto definitivo della critica settoriale, ecceduta l’arte della storia dell’arte, é finalmente vanificato ogni imbellettamento critico dell’esistenza. Se, come ho detto altrove a proposito della voce, fonesi scritta e orale, della voce variopinta nei pittogrammi della scrittura, é visibile anche tantissima musica eccettuata la schopenhaueriana volontà cieca in Rossini, mi fastidia, soprattutto nello specifico delle arti visive, questa volgarità deH’immagine come mediazione, come tara ereditaria delle categorie ontologico linguistiche del pensiero, la mia frequentazione cinematografica é ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta, a bruciare e calpestare la pellicola. M’é riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, perdi più seviziate da un montaggio frenetico. Questa mia fobia deH’immagine, non é iconoclastia fine a se stessa, l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo, fino a separare il teatro dallo spettacolo , così come nella teoria della crudeltà di Antonio Artaud, quel che conta nell’arte non é il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale, qui Jacques Derrida é impeccabile, l’opera non é che una ricaduta residuale, un escremento, nell’etimo, ciò che si separa e cade dall’organismo vivente dalla vita. L’arte é la vita, come irripetibilità dell’evento vivente una volta sola. E perciò l’opera é il materiale morto, é il cadavere evacuato dall’evento. Il 19 destino d’ogni opera d’arte non è nell’opera, è arte all’opera. È il prodursi dell’artista che trascende l’opera, è la sensazione che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon. Un genio è soprattutto colui che eccede le sue opere, l’atto dell’esecuzione artistica è più determinante dell’opera esitata, e qui cito ancora Derrida alla lettera, il genio lascia delle tracce, delle opere, dei residui, ma quanto è veramente geniale e artistico si trova nel ductus, nel gesto della firma, più che in ciò che resta della firma. Da qui ogni arte sarebbe senza opera, e, forse, senza artisti. Ormai ridotta a una sorta di collage di massa, qualunque impresa artistica ha la sorte che merita, dall’evasione dalla vita, alla labirintite intellettuale, dalla reiterazione del teatro totale wagneriano, alle traveggole del multimediale, dalla volubile gratificazione del mercato, alla burocrazia della committenza democratica. L’artefice non è mai autore d’una propria opera, è di per sé, semmai, un capolavoro vivente. 20